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Ignoto sec XVII, Piazza San Domenico Maggiore, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Domenico Gargiulo, Piazza del Mercato, Toledo, Museo de la Fundaciòn Duca di Lerma

Temutissimo era allora il serra, serra, ossia il grido che si passavano artieri, bottegai, gente qualsiasi non appena si aveva sentore di tumulto accompagnato da saccheggio o vandalismo gratuito. Si correva a chiudere porte e finestre, a sbarrare le botteghe, a serraretutto quanto fosse aperto al pubblico per commercio o per consuetudine. In tal modo le masse povere degli inurbati cadevano dalla padella dell'oppressione baronale nella brace del caos cittadino, dove indirettamente la mano fiscale era altrettanto pesante. Tasse e imposte dirette o "gabelle", dazi d'importazione e "diritti" pretesi a diverso titolo colpivano ogni sorta di merce e passaggio di merce. Chi non pagava o frodava era penalizzato con forti multe, e se non aveva danaro veniva sull'istante incatenato dalle "paranze" di soldati e spedito nelle luride, infami carceri dell'"arrendamento". C'erano le giurisdizioni del giustiziere all'annona, del portolano che agiva localmente nei quartieri, e in più circolavano gli occhiuti sbirri a servizio dei privati "arrendatori" o speculatori, che avevano comprato dal governo la gabella ed erano autorizzati a rifarsi, con le buone o con le cattive, sulla povera gente. Fra le gabelle principali va ricordata quella del "grano a rotolo", imposta su ogni rotolo di carne, pesce, latticini, formaggi, salumi introdotti in città. Gradualmente il "grano" si portò a tre grana e s'impose anche sull'olio. Strutture fiscali caratteristiche di allora erano la privativa della neve,stabilita nel 1619 sotto il pur benemerito viceré Ossuna; lo jus reale, che si pagava alla Pietra del pesce, e colpiva una seconda volta i prodotti della pesca al momento della vendita; lagabella della stadera, diritto di due grana per ogni per ogni "salma" di peso della farina; la gabelluccia del vino, da non confondere con la terziaria. Sul sale gravavano la relativa imposta e il dazio regio; sul tabacco l'imposta fu stabilita, tolta e poi ripristinata. Ma la gabella che fece storia, fu quella su frutta e verdure, odiosissima alla popolazione più povera che in esse trovava il suo alimento-base. E la gente si affollava in Napoli, si riproduceva e moltiplicava neivichi e nei bassi, concorreva alla formazione della megalopoli, del regno della miseria, che ironicamente fu detto "paradiso dei diavoli". Si lasciava tartassare dai gabellieri, affamare dagli speculatori, schernire dai "cavalieri", sfruttare dai mercanti, dai rigattieri, illudere dai "togati" che pontificavano nei "Tribunali" di San Lorenzo o della Vicaria. Il Consiglio di Città che sedeva a San Lorenzo era composto di cinque eletti di altrettante "piazze" nobili e dell'unico eletto della "piazza del popolo". Sicché i ventinove quartieri o "ottine" popolari, con tutto il corredo di capitani di strada, consultori, deputati, finivano in un collo d'imbuto. Nel parlamentino municipale di San Lorenzo, che in fondo si limitava a ratificare quanto decidevano dispoticamente la corte di Spagna e il viceré spedito a Napoli, l'unico rappresentante popolare non poteva mai imporre la sua volontà, e anzi, come accadde con i fratelli Naclerio, diventava elemento corrotto nelle mani dei nobili e del governo di Sua Maestà. Il popolo mugugnava, presentava "rispettosi" memoriali al viceré, invocava giustizia, qualche volta sognava... Sognava gli "antichi diritti", i privilegi concessi ai napoletani fedelissimi dai re aragonesi, poi confermati solennemente da quella specie di padre della patria che fu, per mezza Europa, l'imperatore Carlo V. I bei tempi di Colaquinto si erano trasformati in archetipo dell'inconscio collettivo, in "età dell'oro" cui, secondo la diffusa concezione ciclica, il popolo aspirava a ritornare. Il "popolo", a Napoli, si individuava per esclusione. Tutti coloro che non avevano stemmi di famiglia, che non appartenevano alle sette caste araldiche (principi, duchi, marchesi, conti, baroni, patrizi, nobili) e che non erano né ecclesiastici, né gentiluomini al seguito del viceré, appartenevano al popolo. Se la nobiltà tutelava la sua "purezza" con l'appartenenza al seggio o piazza, il resto della città costituiva "l'universo variegato dei non di Piazza". [...] C'era dunque un problema "esistenziale" per il ceto medio: un ceto senza precisi confini, poiché andava dai "dottori" e "togati", che almeno nei tribunali venivano corteggiati dagli stessi nobili, ai "mercadanti, notari, scrivani, mastri d'atti, procuratori, medici, soldati, artieri, preti e religiosi di qualsiasi ordine". Quando poi la ricchezza dei "civili" arrivava al punto da umiliare i nobili e da condizionare le stesse finanze dello stato - come nel caso del grande speculatore Bartolommeo d'Aquino" l'arroganza di questi ultimi sapeva di follia. La "vera Nobiltà" arrivava al punto da considerare "lazzaroni e mascalzoni" gli "honorati cittadini" e tutti coloro che "non erano di seggio". Tuttavia i civiliesercitavano le professioni, maneggiavano danaro, avviavano attività di mediazione e di . produzione, erano più o meno liberi di elevarsi a posizioni di indipendenza economica. Facendo il gioco dello scaricabarile, essi riversavano sulla classe più debole dell'universo napoletano, il "popolo basso" o bassa plebe, il disprezzo patito nell'approccio con gli aristocratici. Gli "honorati cittadini" esprimevano una condanna morale verso i miserabili, verso i lazzari rognosi e puzzolenti, verso gli sfaccendati che oziavano nei crocicchi e nelle taverne, nei confronti delle mostruose vajasse, orridemater matute che dominavano i gironi maledetti dei vicoli e le tribù delle promiscue figliolanze. "Povertà madre di vizi" mormoravano già allora i buoni borghesi o civili ingrassati dal commercio e dalle gabelle. I rurali che a ondate erano giunti dagli Abruzzi, dal Cilento, dalle lontane Puglie erano stati "digeriti" dal magma corrosivo della miseria e ora si trovavano paria tra i paria, materiale umano su cui i soggetti più fortunati della grande città esercitavano il loro potere e i loro capricciosi umori. Ora camminavano scalzi, come tutti gli altri, se non avevano un buco dormivano sulle scale delle chiese e dei palazzi, si accontentavano di lavori precari e improbabili per un carlino, piegavano la schiena nei caricatoi del porto. Se il "popolo basso" non era laido oppure ribelle diventava divertente, anche per gli aristocratici. Napoli era già allora un gran teatro alla rovescia, dove gli attori erano tanti e gli spettatori pochi. L'azione si basava sul ridicolo, sul goffo che si sprigionava dalla vista di uno sraccione che si vestiva da signore, sulla rissa tra poveri affamati che si scannavano per raggiungere una ruota di pane o una forma di cacio. Il piacere di divertirsi alle spalle del popolino aveva questi risvolti di cinismo crudele. Si gettavano monete dalle carrozze o dalle finestre per godersi lo spettacolo di scontri furibondi, non di rado con tragiche conseguenze. Si lasciava che carri interi di cibarie venissero saccheggiati, solo per vedere che tipo di accanimento metteva il bisogno addosso ai poveri della città. Nelle feste si montavano alberi della cuccagna coperti di sego per vedere uomini seminudi, unti, disperati che arrancavano per afferrare le appesedi sostanziosi caciocavalli e salsicce. La nobiltà napoletana e spagnola si dice che convivesse col popolo, spalla a spalla, poiché i vicoli quasi sempre partivano dall'inferno dei bassi per approdare ai paradisi dei palazzi. Ma il proletariato urbano del Seicento era, nell'ottica dei privilegiati, un elemento naturale, un oggetto del vasto paesaggio, il concime umano di cui servirsi per le basse necessità.

continua...