Ma "una repentina mortalità, cagionata da inondazione" aveva colpito, nel
corso del Seicento, l'entroterra nolano. Si dcise di far appello alle risorse divine e fu richiesto a papa Clemente VII di potenziare la già cospicua compagine di santi preposta a tutela della città,
concedendo quale "Ottavo Padrone, il glorioso San Thomaso d'Aquino". E fu così che il nome delDoctor Angelicus andò ad aggiungersi alla preesistente schiera dei "magnifici
sette". Quale centro o capitale, fosse pure spagnola, poteva gareggiare con Napoli in quanto a possesso di reliquie? Ogni chiesa, ogni convento, ogni oratorio era in grado di esporre nelle teche
d'argento almeno un pelo di beato o il dito di un martire. Però il Tesoro dell'arcivescovado superava ogni altro santo deposito. Oltre la testa e il sangue del glorioso San Gennaro, vi si custodivano altre
sette teste di altrettanti Santi Martiri Vescovi. Non c'era che l'imbarazzo della scelta. Dalla testa di San Massimo Maria Cumano al braccio di San Tadeo apostolo, da una parte della faccia di San Giovanni
Battista a una costola dell'apostolo San Paolo, da un pezzo della Santa Croce di Nostro Signore al bastone di San Pietro che guarì Sant'Aspreno. Insomma un potenziale inestimabile che, usato a dovere,
offriva la possibilità di rendere Napoli tutelata e felice per tutti i secoli dei secoli. In questa città così splendida, prediletta dai santi, e in cui le chiese custodivano statue d'argento a misura
d'uomo e le carrozze venivano foderate di seta d'oro, viveva una sterminata popolazione che stava ai limiti della sopravvivenza, era stivata nei verminai dei vicoli privi di luce, luridi, fatiscenti, e
giorno per giorno doveva inventarsi il mestiere o il marchingegno per coprirsi e per mangiare. Nell'immenso universo della miseria, che costituiva la Napoli popolare, trionfavano le malattie, i vizi dei
poveri che sono il gioco e il sesso, la violenza quotidiana, la morte nelle forme più odiose. I vecchi e i malati che non stavano inchiodati nei loro giacigli puzzolenti si trascinavano per la città
esercitando l'accattonaggio, il borseggio se possibile con l'aiuto della marmaglia infantile, e quando erano esausti si lasciavano andare in un posto qualsiasi, preda delle mosche e dei topi provenienti
dalle grotte naturali e dalle fogne del Lavinaro. Non bastava la pur agguerrita organizzazione religiosa dell'assistenza a far fronte all'assalto della miseria e delle epidemie. Sicché la faccia quotidiana
della Napoli popolare era sgradevolissima, spesso oscena. Cecati (ciechi), scartellati(gobbi e storpi), 'nzallanuti (scimuniti e rimbambiti) formavano orride processioni questuanti per
le strade, in cerca di chi sa che cosa, ma attaccaticci come mosche non appena si avvertiva in giro il rumore di una carrozza signorile, il cavalcare superbo di un cavallo, la scia profumata di una dama;
anche perché questi disgraziati non di rado offrivano per qualche carlino povere merci sgraffignate altrove o suoni stonati e graffiati di chitarrini. La quantità spaventosa di indigenti lasciava perplesso
chi aveva già catalogato Napoli tra i luoghi di sogno più belli al mondo. Come'era spiegabile che un clima così mite e carezzevole, uno scenario naturale così maestoso da sembrar dipinto, una natura
generosa che offriva spontaneamente i frutti della terra, e poi una capitale "adorna", come si diceva allora, di gente di chiarissimo nome galleggiasse letteralmente sopra un oceano di rottami
umani? Napoli era dunque una città aristocratica o un carnaio popolare, andava qualificata "nobilissima" o prona a tutto, ai re stranieri come alla miseria, e 'quindi "fedelissima"? Nel
1614 il viceré conte di Lemos aveva ordinato un censimento ed era risultato che Napoli, città e sobborghi, contava "167972 anime". Una diecina di anni dopo la popolazione napoletana si aggirava
sul mezzo milione e il dato, comprensibilmente, va preso con cautela. Impossibile calcolare l'entità dei flussi umani che giornalmente entravano e uscivano dalle mura aragonesi, o sottoporre a statistica
l'umanità caotica e prolifica che si annidava nei quartieri più poveri. Ovviamente non venivano considerati "napolitani" gli appartenenti alle colonie di altri stati italiani, le corti di dame e
gentiluomini che facevano da seguito al viceré e che in genere provenivano dalla Spagna. Non entravano nel computo le folte soldatesche svizzere e alemanne che i governanti tenevano nei castelli e nei
palazzi di residenza, non figuravano nella lista dei passeggeri e i mercanti che dal bacino mediterraneo approdavano a Napoli per vendere le loro merci, per acquistare materie prime come granaglie e seta
greggia, e che spesso si fermavano nell'emporio partenopeo attratti dalla vivacità del movimento cittadino e dalle mille possibilità di intrecciare legami e avventure. Ma Napoli comunque era cresciuta
enormemente, poiché nel Seicento si inurbavano sia i baroni, sia gli abitanti delle province, per il comune interesse di usufruire della immunità fiscale (intendi: imposte dirette). Per i baroni era una
scelta "strategica", quella di abbandonare i castelli per venire al centro, dove vigeva una diversa politesse e
si distribuivano dalla Corte cariche e benefici. Irurali correvano invece a Napoli per salvarsi, oltre che dai pesi demaniali e municipali, dal dispotismo dei feudatari e dei loro feroci agenti. La capitale
scoppiava di inurbati, i borghi si saldavano al tessuto cittadino, e a un certo punto alcuni mercanti genovesi proposero al governo la costruzione di una nuova murazione, purché gli spazi resi liberi
fossero lasciati come aree edificabili. Intanto le case venivano su di cinque sei e sette piani, come non accadeva né a Londra né a Parigi; si rinunciava agli spazi liberi e bene squadrati di concezione
rinascimentale per disegnare stradine, stretti vicoli, lungo i quali si elevano i "grattacieli" del tempo. La congestione urbana determinò in pochi anni fenomeni di vera patologia sociale, a parte
l'aggravarsi delle condizioni igienico-sanitarie già affidate alla precarietà. Si moltiplicarono gli episodi di delinquenza, di emarginazione, di violenza finalizzata o gratuita.
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